Il 70% dei poveri al mondo sono donne, troppo spesso escluse dall’accesso al credito tradizionale.
Finanza e genere: c’è sempre una certa difficoltà a combinare queste due parole, benché lo strumento per eccellenza che lega le donne al sistema creditizio sia il microcredito. Sicuramente non parliamo di alta finanza ma di microfinanza, né di un ceto sociale ricco. Nei Paesi in via di sviluppo 88.726.893 donne sono clienti di microcredito, ovvero l’83,24% del totale (Microcredit Summit Campaign). In Europa non siamo ancora a questi livelli, ci aggiriamo intorno al 30% (in Spagna si arriva al 60%). Perché? Manca una cultura della finanza tra le donne? O forse questa assenza è il risultato di discriminazioni continue? Guardiamo i dati.
In Europa le donne lavoratrici guadagnano in media tra il 15% ed il 17% meno dei loro colleghi maschi per lo stesso lavoro; in Italia, secondo i dati della Presidenza del Consiglio, il “differenziale retributivo di genere” è mediamente al 23,3%. Nel nostro Paese lavora solo il 46,3% delle donne: 7 milioni in età lavorativa sono fuori dal mercato del lavoro; al sud il tasso di occupazione crolla al 34,7%.
Le donne che si presentano in banca per chiedere un prestito spesso non corrispondono al profilo richiesto: sono state casalinghe per troppo tempo, non hanno un curriculum adeguato, non hanno abbastanza soldi e ne chiedono troppi, non danno garanzie sufficienti per quello che la banca richiede loro. Inoltre, le attività imprenditoriali scelte spesso sono troppo piccole, richiedono poco capitale perché legate al settore dei servizi: piccolo commercio, turismo, cura e ospitalità; e prevedono un lavoro flessibile, part-time. Le banche hanno serie difficoltà a capire quale prodotto bancario è adatto a loro.
Recentemente è uscita una ricerca (Alesina, A., Francesca Lotti & Paolo Emilio Mistrulli, “Do Women Pay More for Credit? Evidence from Italy”, Nber Working Paper 14202) che mostra come in Italia il numero dei crediti concessi a imprese individuali e familiari sia cresciuto negli ultimi anni, ma se parliamo delle donne imprenditrici allora le cifre cambiano. Alle donne imprenditrici le banche chiedono in media un tasso di interesse più alto dello 0,30% rispetto agli uomini. Se il garante dell’impresa femminile è a sua volta donna, il tasso di interesse aumenta ulteriormente e la possibilità di finanziamento diminuisce. Ciò va decisamente controcorrente rispetto ai dati che confermano che le imprese femminili italiane sono mediamente più solvibili di quelle maschili. Non c’è una ragione che possa giustificare questo comportamento, se non che forse “si tratta di discriminazione o di semplici pregiudizi”, forse “una donna è per la banca un cliente peggiore per il solo fatto di essere una donna”, afferma sempre Alesina ne “Il credito caro alle donne” .
Se pensiamo che la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle banche è scarsa, 2-3 donne ogni 10-15 uomini, e che quindi il settore bancario è riservato quasi esclusivamente agli uomini, forse troviamo la risposta. Le donne sono maggiormente sottoposte a minaccia di disoccupazione e licenziamento a causa della maternità o del matrimonio, quindi sono maggiormente vittime di processi di impoverimento rispetto agli uomini. Queste violenze economiche ci riconsegnano al resto del mondo ricordandoci che il 70% dei poveri sono donne, tutte legate da uno stesso sottile filo che prende vari nomi ma che si coniuga in una impossibilità di accesso, in una diseguaglianza o discriminazione, trasformandosi o in un doppio sforzo nostro o in una rinuncia. Quante donne si autoescludono dal mondo del credito semplicemente perché pensano di non essere accettate, di non essere capaci!
Gli ostacoli psicologici e pratici nell’affrontare le pratiche burocratiche e la paura di non essere in grado di restituire il prestito negano un’importante opportunità di valorizzare i talenti e le capacità delle donne, ma soprattutto, di guadagnarci la nostra indipendenza economica! Se incrociamo questi dati con quelli della violenza di genere diventa evidente come la donna sia costantemente ostacolata ed esclusa per cause di genere, aumentando i processi di impoverimento che si riflettono oggi nel mondo e domani sulle future generazioni.
La violenza riduce l’abilità di una donna a lavorare, la tiene lontana da educazione, lavoro, reddito intrappolandola in una doppia spirale non solo di violenza ma anche di povertà. Le donne vittime di violenza domestica hanno una maggiore probabilità di perdere il lavoro o abbandonarlo, facendo ricadere su di se e i propri figli le conseguenze economiche, educative, sanitarie, sociali. L’esclusione dal reddito si trasforma in impoverimento divenendo perdita di produttività che si riscontra a livello nazionale.
Negli anni Pangea ha sperimentato che attraverso il microcredito le donne hanno maggiore autonomia economica, di conseguenza hanno più strumenti per affrontare la violenza e la vita in generale. Migliorare la condizione economica e la sicurezza finanziaria non serve solo a fermare o prevenire l’impoverimento, ma anche ad avere maggior fiducia in se stesse, maggiore forza decisionale e riduce la vulnerabilità delle donne nei confronti della violenza, aprendo altre opzioni di percorsi e formazione.